Emergenza sanitaria e sospensione dello stato di diritto, di Giuseppe Angiuli
A partire dall’avvento del clima di emergenza sanitaria nazionale, l’ordinamento giuridico del nostro Paese sta vivendo una lunga fase critica in cui lo stato d’eccezione sta comprimendo in modo serio e preoccupante una serie di diritti di libertà dei cittadini che eravamo abituati a ritenere da tempo intangibili.
Trattasi a ben vedere di una limitazione di diritti costituzionalmente garantiti – su tutti, la libertà personale di circolazione e di soggiorno, la libertà di iniziativa economica, la libertà di riunione, il diritto all’istruzione – con delle modalità talmente draconiane che non si vedevano mettere in atto, almeno nel nostro contesto nazionale, quanto meno dai tempi della fase conclusiva del secondo conflitto bellico mondiale (1943-45).
Nel secolo scorso, il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt, nel suo celebre scritto Teologia politica, ammetteva apertamente la necessità di garantire ad ogni potere politico che possa intendersi pienamente sovrano la facoltà di ricorrere discrezionalmente all’invocazione dello stato d’eccezione, osservando che non «si può affermare con chiarezza incontrovertibile quando sussista un caso d’emergenza, né si può descrivere dal punto di vista del contenuto che cosa possa accadere quando realmente si tratta del caso estremo di emergenza e del suo superamento. Tanto il presupposto quanto il contenuto della competenza sono qui necessariamente illimitati»[1].
In una simile visione, secondo Schmitt, andrebbe legittimata l’ampia sfera di discrezionalità con cui un regime politico è chiamato a valutare le condizioni per la proclamazione del superamento dello stato di diritto, essendo la politica naturalmente titolare della prerogativa di decidere la sussistenza dello stato di eccezione e, secondariamente, la decisione su «cosa si debba fare per superarlo».
Appare utile ricordare come tale approccio sia stato ampiamente criticato, sempre nel novecento, da tutti i giuristi muniti di una concezione giuspositivista e costituzionalista del diritto – come l’austriaco Hans Kelsen – ben consapevoli dell’intrinseca pericolosità della tendenza del potere politico ad invocare lo stato d’eccezione ogniqualvolta ad esso faccia comodo sabotare quell’articolato meccanismo di pesi e contrappesi istituzionali tipici di un sistema di stato di diritto.
Nel caso che ci riguarda, a partire dalla proclamazione dello stato di emergenza sanitaria su scala nazionale, avvenuta con decisione del Consiglio dei Ministri del gabinetto cd. Conte bis in data 31 gennaio 2020[2], si è assistito ad una copiosa e prolungata attività di produzione normativa – a tutt’oggi non ancora cessata – assumente la cornice amministrativa del decreto della Presidenza del Consiglio.
Il ricorso a tale involucro formale del d.p.c.m., dichiaratamente ispirato al noto meccanismo giuridico dei regolamenti di delegificazione (consacrato nella legge 23 agosto 1988, n. 400[3]), non ha mancato di attirare fin da subito delle aspre critiche da parte di autorevole dottrina.
Su tutti, si sono segnalati gli interventi di ben tre Presidenti emeriti della Corte Costituzionale, Sabino Cassese[4], Antonio Baldassarri[5] e Annibale Marini, i quali hanno apertamente denunciato la illegittimità del ricorso da parte del Governo italiano al suddetto meccanismo della delegificazione al fine di approvare norme capaci, nella stessa intenzione del potere esecutivo, di sacrificare perfino dei diritti coperti dal principio di riserva di legge o comunque il cui libero ed incondizionato esercizio appare consacrato nella nostra Costituzione del 1948.
Le suddette critiche si sono contraddistinte per la comune segnalazione dell’abuso del ricorso alla potestà regolamentare da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, che avrebbe violato il principio di legalità costituzionale sovvertendo la normale scala gerarchica delle fonti del diritto italiano nonché sulla omessa fissazione di un termine temporale con riguardo alla sospensione dell’esercizio di ciascun diritto di libertà oggetto di compressione[6].
Al contempo, anche nella giurisprudenza di merito non si sono fatti attendere in questi ultimi tempi dei coraggiosi interventi di giudici italiani tendenti a riaffermare i principi basilari del nostro stato di diritto, calpestati dalla normativa d’emergenza a cui è disinvoltamente ricorso il potere esecutivo con il più che discutibile pretesto della situazione di emergenza sanitaria.
A segnalarsi per prima per il suo carattere pioneristico è stata una sentenza del Giudice di Pace di Frosinone, pubblicata il 29 luglio 2020, n. 516 (G.d.P. l’avv. Manganiello), chiamato ad esprimersi sulla opposizione ad un’ordinanza-ingiunzione prefettizia che aveva confermato la validità di un verbale sanzionatorio elevato a carico di un cittadino ritenuto colpevole di avere violato il divieto di circolazione nel corso del periodo del confinamento generalizzato degli italiani (valevole tra il 10 marzo ed il 3 maggio 2020).
Il Giudice di Pace di Frosinone, con la predetta pronunzia, ha ritenuto di qualificare come illegittima ab origine la stessa deliberazione del 31 gennaio 2020 con cui il Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana aveva dichiarato a suo tempo lo stato di emergenza nazionale in conseguenza del rischio sanitario da contagio da coronavirus.
A detta del giudice ciociaro, le norme del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 (recante il Codice della protezione civile) – e, in particolare, la norma ex art. 7, comma 1, lett. c), espressamente invocata dal Consiglio dei Ministri all’atto della proclamazione dello stato di emergenza sanitaria – non contemplerebbe alcuna ipotesi riconducibile al clima di rischio sanitario da agenti virali, limitandosi l’impianto normativo del suddetto decreto legislativo a dettare delle disposizioni strettamente attinenti al funzionamento degli organi della Protezione Civile italiana con riguardo al delimitato ambito delle calamità naturali nel senso stretto della locuzione.
Più in particolare, il Giudice di Pace di Frosinone ha evidenziato che il citato art. 7, d. lgs. n. 1 del 2018, nel definire la «tipologia degli eventi emergenziali di protezione civile», consentirebbe unicamente di prendere in considerazione, quali eventi rischiosi per la collettività e perciò legittimanti la proclamazione dello stato d’emergenza, le vere e proprie calamità naturali (da intendersi quali terremoti, valanghe, alluvioni, incendi, ecc.) ovvero gli stati di rischio ambientale derivanti da attività dell’uomo (quali ad esempio gli sversamenti di liquami pericolosi, le attività umane inquinanti, la concentrazione di rifiuti non facilmente smaltibili in un determinato territorio ed altri eventi simili).
Per il giudice frusinate, la delibera emergenziale assunta dal Governo italiano a monte di tutta la produzione di atti amministrativi poi adottati nella forma del d.p.c.m. sarebbe essa stessa illegittima giacchè «nessuna fonte costituzionale o avente forza di legge ordinaria attribuisce il potere al Consiglio dei Ministri di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario»: di conseguenza, l’intera sequela di d.p.c.m. adottati medio tempore dal Governo in virtù della citata delibera del 31 gennaio 2020 viene a perdere, di riflesso, ogni validità ed efficacia e può essere disapplicata dal giudice ordinario alla stregua del principio di cui all’art. 5 della legge n. 2248 del 1865, All. E.
Inoltre, il Giudice di Pace di Frosinone ha osservato che l’intera attività di decretazione a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri (da intendersi quale organo monocratico), quand’anche abbia inteso invocare il presupposto del suo intervento in una disposizione avente forza di legge quale il decreto-legge[7], non sarebbe stata ad ogni modo corretta in quanto contrastante con il meccanismo di delega dettato dall’art. 76 della nostra Costituzione ed atteso che «solo un decreto legislativo, emanato in stretta osservanza di una legge delega, può contenere norme aventi forza di legge, ma giammai un atto amministrativo, come le Ordinanze sindacali o regionali od il DPCM, ancorché emanati sulla base di una delega concessa da un decreto-legge tempestivamente convertito in legge».
Infine, il Giudice di Pace di Frosinone ha definito illegittima la limitazione per atto governativo del diritto di libertà personale, di circolazione e di soggiorno dei cittadini italiani in virtù della nota riserva di giurisdizione fissata dall’art. 13 Cost.
Con specifico riguardo all’obbligo di confinamento domiciliare, coincidendo tale misura con il contenuto di una tipica sanzione penale restrittiva della libertà personale il cui potere di irrogazione spetta costituzionalmente alla sola Magistratura, il giudice ha osservato che «neppure una legge potrebbe prevedere nel nostro ordinamento l’obbligo della permanenza domiciliare, direttamente irrogato a tutti i cittadini dal legislatore, anziché dall’autorità giudiziaria con atto motivato, senza violare il ricordato art. 13 Cost.».
Sul solco della prefata sentenza si è collocata l’ordinanza assunta dal Tribunale Civile di Roma il 16 dicembre 2020 (VI^ sezione, giudice monocratico il dott. Liberati, procedimento R.G. n. 45986/2020, pubbl. in www.cassazione.net).
Il caso sottoposto al Tribunale di Roma ha preso vita dal giudizio di opposizione alla convalida di uno sfratto per morosità, nel quale la società conduttrice di un immobile adibito ad attività di vendita al pubblico ha eccepito quale ragione giustificatrice della sua inottemperanza all’obbligo di pagare i canoni di locazione l’evenienza della dedotta situazione di emergenza epidemiologica da Covid-19, con la conseguente interruzione forzata dell’attività commerciale almeno per un certo periodo di tempo.
Anche il giudice capitolino ha espresso un severo giudizio sull’utilizzo dello strumento normativo del d.p.c.m., ritenendolo un atto amministrativo radicalmente inidoneo a sospendere alcuni diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino, sanciti dalla nostra carta costituzionale e da molteplici convenzioni internazionali.
Il Tribunale di Roma – richiamando il parere dottrinale pubblicamente espresso dal Presidente emerito della Consulta, Annibale Marini – ha dunque colto l’occasione per adombrare l’illegittimità costituzionale anche dei d.p.c.m. adottati nella cosiddetta «fase 2» dell’emergenza sanitaria, vale a dire nel periodo successivo al 4 maggio 2020: per tali atti amministrativi sarebbe mancato un previo e necessario momento di passaggio parlamentare, avendo gli stessi d.p.c.m. semplicemente prorogato la sospensione di diritti di libertà individuale dei cittadini garantiti dagli articoli compresi tra il 13 e il 22 della nostra Costituzione e non avendo detti decreti finanche apposto un preciso termine temporale alla vigenza di tale eccezionale sospensione.
Inoltre, a detta del giudice capitolino, anche a voler ritenere i d.p.c.m. in questione come rispettosi della nostra carta costituzionale, gli stessi atti amministrativi si qualificherebbero comunque illegittimi stante il loro evidente difetto di adeguata motivazione alla stregua del disposto di cui all’art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241 («Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi»).
Sotto quest’ultimo profilo, a finire sotto la scure del Tribunale di Roma è stata la tecnica di motivare i suddetti d.p.c.m. mediante rinvio «per relationem» ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (C.T.S.), di cui peraltro è stata criticata la scarsa trasparenza ed il colpevole ritardo nella pubblicazione degli atti.
In aggiunta a tutto ciò, il Tribunale ordinario della Capitale, ponendosi in espresso richiamo all’ordinanza cautelare del TAR del Lazio, n. 7468 del 4 dicembre 2020 – dinanzi al quale era stata proposta l’impugnativa del d.p.c.m. del 3 novembre 2020 – ha ravvisato nei suddetti atti amministrativi il fumus boni juris della sussistenza di un vizio da eccesso di potere, per non avere operato la Presidenza del Consiglio dei Ministri un equo ed «opportuno bilanciamento tra il diritto fondamentale alla salute della collettività e tutti gli altri diritti inviolabili» e per il fatto che, per molte delle scelte adottate dal C.T.S., come evincibili dalla lettura dei relativi verbali, «non appare comprensibile la motivazione e, in alcuni tratti, la logica sottesa».
In conclusione, il Tribunale Civile di Roma ha ritenuto che la parte conduttrice e morosa del rapporto di locazione in esame non avrebbe avuto alcun diritto di eccepire l’alterazione dell’equilibrio nel sinallagma contrattuale che lo vede vincolato al proprietario dell’immobile locato e, piuttosto, avrebbe dovuto dolersi del non avere essa stessa impugnato i d.p.c.m. dinanzi al competente Tribunale Amministrativo Regionale.
Sempre in quest’ultimo periodo, in seno alla Giustizia amministrativa si è segnalata la decisa attività di denuncia di alcuni genitori di studenti della scuola primaria i quali hanno agito dinanzi al TAR del Lazio per ottenere l’annullamento delle disposizioni che impongono nel corso dell’attività didattica in presenza nelle scuole italiane l’utilizzo generalizzato del dispositivo di protezione delle vie respiratorie (la cd. mascherina) anche a tutti gli studenti di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, anche se correttamente distanziati ed anche a prescindere dall’osservazione dei dati epidemiologici dello specifico contesto territoriale in cui l’attività scolastica viene espletata.
Nell’ambito dei diversi filoni in cui si è ripartito il suddetto contenzioso in sede di Giustizia amministrativa – ad oggi non ancora pervenuti ad alcuna pronunzia di decisione nel merito – si sono segnalati alcuni provvedimenti di natura istruttoria e cautelare che hanno assunto il significato di un’ampia apertura di credito da parte dei giudici amministrativi verso le ragioni addotte dai genitori degli studenti.
In un primo caso, i genitori di un alunno sardo hanno dedotto la difficoltà di ossigenazione (ipossia) per il loro figlio infradodicenne, segnalando l’assurdità di una regola che impone comunque l’utilizzo prolungato delle mascherine a scuola senza preoccuparsi delle reali ed effettive condizioni di salute dei ragazzi.
Con la succitata ordinanza istruttoria n. 7468 del 4 dicembre 2020, il Tribunale Amministrativo capitolino ha dunque imposto alla Avvocatura dello Stato di produrre in atti le copie dei verbali di alcune sedute del comitato tecnico-scientifico che fino a quel momento erano state tenute riservate.
Con quello stesso provvedimento, il TAR del Lazio non ha mancato di stigmatizzare il dato per cui «dal DPCM impugnato non risulta siano stati effettuati approfondimenti sull’incidenza dell’uso di mascherina, per alunni da 6 a 11 anni, sulla salute psico-fisica degli stessi, nè un’analisi del contesto socio-educativo in cui l’obbligo per tali scolari è stabilito come pressoché assoluto, né sulla possibilità che vi sia un calo di ossigenazione per apparati polmonari assai giovani causato dall’uso prolungato della mascherina».
In un altro filone di contenzioso amministrativo generato da una situazione affatto identica alla prima, i genitori di una ragazzina della Provincia autonoma di Bolzano – a cui si sono poi aggregati con intervento ad adiuvandum numerosi altri genitori di studenti di diverse zone d’Italia – hanno impugnato la legittimità del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 3 dicembre 2020, censurandone in particolare la mancata previsione di circostanze di esenzione dall’obbligo di indossare le mascherine per i minori infradodicenni, come peraltro previsto dalle indicazioni internazionali fornite dall’OMS e dall’Unicef.
Con ordinanza cautelare n. 873, pubblicata il 13 febbraio 2021, i giudici del TAR del Lazio, una volta presa visione di alcuni verbali delle sedute del C.T.S., hanno verificato che, sorprendentemente, in esse non era contenuta alcuna indicazione sulla necessità di imporre in modo indiscriminato e continuativo l’uso della mascherina a tutti gli scolari infradodicenni[8]: pertanto, in questo filone di contenzioso si è raggiunta la prova dell’assoluta irragionevolezza ed abnormità di tale scelta impositiva assunta in modo del tutto arbitrario e palesemente a-scientifico dal Governo italiano, nonostante la sua potenzialità di arrecare seri danni alla salute psico-fisica dei bambini italiani.
Con lo stesso provvedimento cautelare, il TAR Lazio ha dunque intimato al Governo centrale, in vista della scadenza del d.p.c.m. adottato in data 14 gennaio 2021, di addivenire ad un ripensamento dell’obbligo indiscriminato dell’uso di mascherine a scuola per i minori d’età compresa tra i 6 e gli 11 anni, invitando l’esecutivo ad agire entro i confini delle specifiche indicazioni dettate dal C.T.S. nel documento “Misure di prevenzione e raccomandazioni per gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado per la ripresa dell’anno scolastico 2020-2021” risalente al 31 agosto 2020.
Le prefate statuizioni di componenti della magistratura italiana particolarmente sensibili alla salvaguardia dei diritti inviolabili dei cittadini costituiscono un primo segnale luminoso in un contesto generale dai contorni piuttosto oscuri, oggi contraddistinto da un preoccupante ricorso del potere politico allo stato d’eccezione al fine di comprimere alcuni tra i più sacri diritti di libertà dell’uomo.
L’auspicio è che simili iniziative in sede giudiziaria siano presto affiancate da una più decisa attività di sostegno e sensibilizzazione della collettività da parte di ampie fasce di giuristi italiani, i quali non dovrebbero mancare di assumersi la loro responsabilità in uno dei momenti più difficili per la vita della Repubblica, memori dell’ammonimento di Cicerone, secondo cui «legum servi sumus ut liberi esse possimus» («Siamo schiavi delle leggi per poter essere liberi»).
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Clicca in basso per leggere i provvedimenti in formato integrale:
Giudice di Pace di Frosinone, sent. n. 516 del 2020
Tribunale Civile di Roma, ord. del 16 dicembre 2020 (tratta da Cassazione.net)
TAR Lazio-Roma, ord. n. 7468 del 4 dicembre 2020
TAR Lazio-Roma, ord. n. 873 del 13 febbraio 2021
[1] C. Schmitt, Teologia politica, traduz. it. in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, il Mulino, 1972.
[2] Cfr. la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, recante «dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili», pubbl. in G.U. Serie Generale, n. 26 del 1 febbraio 2020
[3] L’articolo 17, secondo comma, della legge n. 400 del 1988, così prevede: «Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio di Stato e previo parere delle Commissioni parlamentari competenti in materia, che si pronunciano entro trenta giorni dalla richiesta, sono emanati i regolamenti per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla Costituzione, per le quali le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potesta’ regolamentare del Governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari».
[4] Cfr. l’intervista di Sabino Cassese alla rivista Il dubbio del 14 aprile 2020, in www.ildubbio.news/2020/04/14/
[5] Cfr. l’intervento di Antonio Baldassarri all’agenzia ADNKronos del 13 ottobre 2020, in www.adnkronos.com/baldassarre-
[6] In tal senso, cfr. l’intervento del Pres. emerito Annibale Marini all’agenzia ADNKronos, il 29 aprile 2020, in www.adnkronos.com/marini-dpcm-
[7] Il riferimento è da intendersi, almeno per i primi d.p.c.m. emanati nel corso del periodo di emergenza, al decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (in G.U. n. 132 del 23-5-2020), recante «Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19», poi convertito con legge 22 maggio 2020, n. 35.
[8] Al contrario, è risultato che nel verbale del C.T.S. n. 104 del 31 agosto 2020 era specificato che «nell’ambito della scuola primaria, per favorire l’apprendimento e lo sviluppo relazionale, la mascherina può essere rimossa in condizione di staticità (i.e. bambini seduti al banco) con il rispetto della distanza di almeno un metro e l’assenza di situazioni che prevedano la possibilità di aerosolizzazione (es. canto)».
Avvocato Giuseppe Angiuli